lunedì, ottobre 25, 2010

MISERIA E … DIGNITA’.


Oristano 25 Ottobre 2010
Cari amici,
oggi voglio farvi partecipi di uno dei "ricordi indelebili" della mia fanciullezza.
E' quello di Tzia Mariedda, una figura per me cosi importante che è rimasta impressa per sempre nella mia mente. Ecco, per Vostra conoscenza, il ricordo e la storia di una persona straordinaria.

Grazie. Mario

MISERIA E DIGNITA' ( La venditrice di mirto ).

Chissà perché quella che mi è rimasta più impressa nella mente è la sacchetta di tela che portava sempre con sè legata in vita e che si apriva e chiudeva facendo scorrere un cordino! Era di tela grossa e la ricordo rigonfia, piena di grosse bacche di mirto profumato, che Lei offriva a noi ragazzi con un sorriso, riempiendo una piccola tazza di ferrosmalto che teneva in mezzo al mirto.

Fosse vissuta al giorno d’oggi tzia Mariedda avrebbe avuto meno problemi a sbarcare il lunario. Negli anni ’50, invece, quelli della lenta “ricostruzione”, che doveva spazzare via le macerie della guerra, soprattutto per le vedove senza reddito la vita non era facile.

In quegli anni io ero poco più di un bambino, ma ricordo bene fatti e figure, considerato che ho una buona memoria fotografica. Lei era una donna di piccola statura, sempre vestita di nero, con una serie di gonne indossate una sopra l’altra, ognuna delle quali copriva le parti usurate, mancanti, della gonna sottostante. Uno scialle scuro, che aveva conosciuto tempi migliori, le avvolgeva le spalle, o veniva, in caso di brutto tempo, indossato sopra il fazzoletto nero che le copriva perennemente la testa.
Ricordo bene la sua figura esile, un po’ curva, sempre scalza, estate e inverno, con le piante dei piedi ricoperte, ormai, da una suola naturale che sostituiva egregiamente, ed a costo zero, le scarpe che non si era mai potuta comprare.
Tzia Mariedda non era di Bauladu, credo che fosse originaria di uno dei paesi vicini e che avesse perso il marito in guerra. In quegli anni le pensioni stentavano a decollare, perché soddisfare le esigenze delle famiglie dei tanti caduti in guerra non era facile con le magre risorse dello Stato che una guerra assurda e persa aveva messo in ginocchio. I sopravvissuti alla guerra, però, dovevano campare e le famiglie dei caduti, soprattutto, dovevano ingegnarsi tutti i giorni per mettere insieme il pranzo con la cena.
Chiedere aiuto non è mai stato facile per nessuno: chiedere l’elemosina, mendicare, è addirittura per molti un comportamento impossibile da praticare.
Tzia Mariedda, pur vivendo in grande povertà, non avrebbe mai potuto farlo: non aveva mai abdicato alla sua dignità e mai avrebbe mendicato, chiesto l’elemosina. Nella sua concezione economica del dare e dell’avere Lei poteva concepire il “baratto”, non il dono senza scambio. Lei avrebbe sempre ricambiato, avrebbe svolto qualsiasi mansione, qualsiasi lavoro, anche durissimo, anche in cambio di poco o nulla, ma chiedere la carità no, questo Lei non l’avrebbe mai fatto.

Si alzava all’alba, tutti i giorni, estate ed inverno, e si recava in campagna; qui cercava, a seconda delle stagioni, quei prodotti spontanei che potevano essere venduti, commercializzati: funghi prataioli, cardi, carciofini selvatici, cicoria, bietole, frutti selvatici come mirto, pere selvatiche e quant’altro.

Messa insieme la quantità ritenuta bastante per la giornata si incamminava verso uno dei paesi vicini, sempre a piedi, e iniziava le”visite di vendita” dei prodotti campestri raccolti che portava con sè in una sacca fatta di tela grezza e che offriva alle famiglie di sua conoscenza.
Le persone che andava a visitare le conosceva bene. Si affacciava alla porta chiamando per nome la padrona di casa e, ricevuto l’invito ad entrare, avanzava verso la cucina sempre con un sorriso dolce e triste allo stesso tempo. Era sempre ben accolta. Nonostante i tempi fossero duri per tutti e le difficoltà non mancassero, era difficile che le famiglie rifiutassero quello che Lei offriva.

Lei non dava un prezzo alla sua merce: la metteva sul tavolo da cucina e con un sorriso diceva: “ ti ho portato questo, è fresco e genuino, prendilo”. Lo diceva in sardo e non indicava mai il prezzo, aggiungendo, sempre con un sorriso, “ giaimi su chi keris” ( dammi in cambio quello che vuoi ).
Più che una proposta di vendita altro non era che uno scambio, un “baratto”: in cambio, spesso, riceveva una pezzo di pane, un pezzo di formaggio, un po’ d’olio o un pugno di cereali. La padrona di casa dove si presentava sapeva perfettamente che il prodotto offerto mascherava una richiesta di aiuto che, per dignità, non veniva espresso direttamente; tutti sapevano che Lei non sarebbe mai entrata in una casa a chiedere semplicemente l’elemosina, voleva orgogliosamente dare, in cambio, il frutto, pur modesto, della sua fatica, del suo impegno, del suo lavoro.

Nel periodo della maturazione del mirto ( le campagne allora abbondavano del dolce frutto oggi meglio utilizzato per produrre il classico digestivo ) ne portava sempre con sè una sacchetta. A noi ragazzi le dolci e profumate bacche piacevano molto e le mangiavamo con gusto: servivano, tra una corsa e l’altra, tra un gioco e l’altro, a riempire i vuoti dello stomaco che, data l’età giovanile, avrebbe ingurgitato ben altri prodotti ed in quantità certo più rilevanti! Lei a noi ragazzi lo offriva sempre spontaneamente, dopo aver riempito, con la mano stanca, la tazza che immergeva nella sacchetta appesa in vita. Ci guardava sempre con il sorriso, dolce e triste insieme, mentre noi divoravamo velocemente, rispondendo al suo con il nostro sorriso gioioso e grato, quello di chi vive senza troppi pensieri, senza quelle pesanti responsabilità che, invece, gli adulti avevano. I problemi, le responsabilità, sarebbero arrivati, più tardi, anche per noi.
Quale dignità, quale portamento, quale lezione di vita, hai dato ieri e potresti dare oggi! Che grande differenza tra le povertà di ieri, portate con dignità e solidarietà, e le povertà di oggi, vissute, invece, con rabbia ed arroganza.

Com’è differente lo sguardo di chi “chiede” oggi, al semaforo o di fronte alla Chiesa, pieno di odio e rancore verso il mondo intero, da quello Tuo, “ Tzia Mariedda”, che mai avrebbe negato un sorriso! A nessuno.
Mi domando: miseria affrontata con dignità quella di ieri e miseria vissuta senza dignità quella di oggi ? Il dubbio è forte.

Sarà, forse, l’effetto della “ Globalizzazione” che mercifica anche i sentimenti, sacrifica, annientandola, anche la dignità? Chissà! Speriamo che i giovani trovino la forza di reagire.
Grazie tzia Mariedda della tua bontà e del tuo sorriso che mai dimenticherò. Quando riapro quel file mi rivedo e mi ritrovo ragazzo gioioso e pieno di vita e Ti rivedo, sempre in movimento, con il paniere e la sacchetta colma di mirto, con stampato in viso quel dolce e malinconico sorriso che è rimasto per sempre dentro di me: devo essere sincero, qualche volta, una lacrima mi scende furtiva e bagna velocemente il mio viso di eterno ragazzo.

Pensateci anche Voi, cari amici e lettori.

Mario

1 commento:

Filippo Martorelli ha detto...

Mi sono commosso nel leggere lo scritto, anche io ho vissuto quei periodi. Grazie per averci fatto conoscere la storia di questa persona.