domenica, dicembre 26, 2010

NON SEMPRE I DONI SONO...GRADITI: LA RICOTTA ACIDA.



Oristano 26 Dicembre 2010

Cari amici,
non volevo chiudere l'anno senza riportarVi un'altro dei miei ricordi di gioventù. Ve ne ho riportato già diversi e quest'ultimo (per quest'anno) è' sempre legato al primo periodo della mia fanciullezza, quella dei miei 10/15 anni, che avveniva nei tristi anni del dopoguerra: anni 1950/60.

A questo racconto ho voluto dare il titolo di:

Un dono poco gradito: la ricotta acida.

Leggendo capirete il perchè. Spero di non deludere le Vostre aspettative.
Ecco la storia...vera.
Le giornate più belle per stare insieme e giocare erano, per noi ragazzi, quelle primaverili.

Il sole dopo i mesi grigi dell’inverno scaldava i muri delle case, le levigate pietre delle soglie, gli stipiti, e particolarmente quelle grosse lastre di basalto, collocate ai lati dell'ingresso delle case ( questo rialzo è comunemente chiamato “sa muredda"(1), ben lavorate e sagomate, rialzate come un alto gradino, venivano utilizzate principalmente per una funzione allora molto importante: quella di facilitare il salire e lo scendere dal cavallo o dall’asino, allora pressochè unici mezzi di locomozione e trasporto da e per la campagna. Di questo "rialzo" ne erano munite la gran parte delle abitazioni, soprattutto quelle dei proprietari terrieri e di bestiame, che quotidianamente si recavano in campagna sia per i lavori agricoli che per l'allevamento del bestiame.
Per noi ragazzi, invece, questa grande pietra era una vera e propria “piattaforma”, il nostro “tavolo di riunione” e di discussione, luogo preferito per programmare e predisporre i giochi e le scorribande della giornata.
Stare insieme in modo giocoso non era certo difficile anche se, allora, in quegli anni ancora bui dopo la fine della guerra, le famiglie mancavano di tutto: dai viveri per l'alimentazione all’abbigliamento, dalle scarpe (molti di noi scorrazzavano scalzi) ai giocattoli.
Il fatto che sto per raccontarvi avvenne proprio in una di queste giornate primaverili, piene di sole, e riempite, purtroppo, solo dal nostro entusiasmo e dalla nostra esuberanza.
Eravamo arrivati da poco al solito punto di riunione e, formato il gruppo, preparavamo le strategie da mettere in atto per i giochi del pomeriggio.
Mentre discutevamo animatamente improvvisamente sentimmo aprirsi la porta della grande casa padronale di fronte a noi. Usci l’anziana padrona di casa che certamente si era ben accorta della nostra presenza, dato il nostro consueto modo poco silenzioso di stare in strada.
Dopo aver dato una larga occhiata in giro per tutta la piazza, assaporato con gli occhi socchiusi i raggi del sole che illuminavano e riscaldavano la facciata della sua abitazione e messo a fuoco il nostro gruppo che alla sua uscita si era fermato ad osservarla, ci chiamò con un cenno della mano. Ci avvicinammo e Lei, porgendoci un recipiente di vimini intrecciati, chiamato comunemente “fruscella”(2) contenente una forma di ricotta, ci apostrofò dicendo: “ Pappai piccioccheddus”(3), consegnando il recipiente a quello di noi più vicino a Lei.
Fatto questo rientrò lentamente in casa socchiudendo la porta.
Rimasti soli appoggiammo il cesto di vimini al centro de “sa muredda” e, con gli occhi lucidi di desiderio, lo osservammo in attesa di tuffare con avidità le nostre mani e gustare con gioia il suo bianco contenuto.
La possibilità di mangiare a sazietà una forma intera di ricotta non era certo roba di tutti i giorni e per noi non era certo un dispiacere, anzi! Con il nostro appetito robusto ci voleva ben altro per riempire uno stomaco che con i suo forti languori reclamava cibo in continuazione e la fame di ciascuno di noi sembrava provenire da un sacco incolmabile!
Ci guardavamo l’un l’altro aspettando che uno di noi facesse la prima mossa. Fu Chicco a farla per primo: non resistendo più introdusse velocemente la mano a forma di cucchiaio dentro il recipiente, ne prese un po’ e depositando direttamente la mano dentro la bocca ne vuotò il contenuto, pulendo, in uscita, la mano con la lingua.
Dopo le prime difficili mosse masticatorie, considerato che aveva la bocca piena, lo vedemmo sbiancare: con un rauco urlo di disgusto sputò con forza il contenuto dalla bocca.
“ Che schifo”, iniziò ad urlare e continuò a pulirsi la bocca sputando saliva mista a ricotta, con la faccia schifata.
Restammo tutti di sasso: le nostre mani avide che erano già pronte ad immergersi nella ricotta tornarono rapidamente ad abbassarsi. Anche un altro di noi che subito dopo di lui aveva preso una manata di ricotta, sputò velocemente il contento con grande disgusto. Eravamo tutti perplessi: cosa mai poteva avere questa ricotta da essere rifiutata in questo modo? Cercammo di toglierci il dubbio.
Alcuni, io fra i primi, volevano verificare di persona se quanto asserito dai due assaggiatori era vero. Ne presi una piccola dose e, con grande circospezione, la introdussi in bocca. Iniziai lentamente a masticare ma un forte sapore, acido e rancido insieme, mi bloccò; sputai subito, con forza, ma le mie papille gustative erano ormai impregnate di un sapore amarognolo di fumo misto a muffa, che, unito al pessimo sapore acido e rancido, rendeva impossibile ingurgitare il prodotto anche a ragazzi con un robusto appetito come il nostro.
Ci guardammo senza parlare, schifati, avviliti ed arrabbiati per la grande presa in giro subita. Ognuno diceva la sua. Erano tutte proposte di reazione, diverse nella forma ma uguali nella sostanza, comunque sicuramente efficaci. Dopo un lunga discussione una proposta fu accettata all’unanimità con un applauso. Con un sorriso sornione sulle labbra e gli occhi lucidi di quella gioia che riempie chi si appresta a restituire un brutto scherzo ci allontanammo, spostandoci dietro l’angolo della casa e portando con noi “ sa fruscella” con la ricotta acida, che noi volevamo trasformare in “arma letale”.
Appoggiato il contenitore ad un’altra “muredda” ognuno di noi prese con le mani piccole dosi di prodotto e iniziò a lavorarlo. Tutti partecipammo alla preparazione delle “bombe”, muovendo le mani alacremente per fare un gran bel numero di palline che, ben pressate, a lavoro finito, vennero rimesse dentro il cestino.
A lavoro finito ci appostammo a distanza di tiro e, una alla volta, iniziammo a lanciare le "bombe" verso l'obiettivo concordato, mirando con attenzione per colpire bene il bersaglio.
Destinatari delle “bombe acide” furono gli stipiti della porta, il muro della facciata della casa incriminata, le finestre ed ovviamente la porta d’ingresso. Con rabbia e pazienza insieme facemmo una bella corona di ricotta a gran parte della facciata dell’abitazione. Alla fine mettemmo, come firma della nostra opera, il canestro di fronte alla porta e scappammo via.
Per tutta la giornata nessuno di noi circolò nei paraggi. Solo alcuni, quelli che abitavano di fronte, spiarono i movimenti della “vecchia” e le eventuali reazioni.
La vendetta funzionò, anche se oggi, col senno degli anni, posso affermare che la vendetta non paga mai. Sbollita la rabbia i nostri giochi ripresero e la gioia degli anni giovanili fece dimenticare presto lo smacco subito. Per noi, però, quella casa ed suoi abitanti rimasero sempre desolatamente assenti. Mai più ci vennero offerte cibarie, né buone né avariate. Il portone di quella casa, quella pesante porta oggetto dei nostri attacchi, anche quando non avremo voluto, rimase, sempre, inesorabilmente chiusa.
Ciao a tutti.

Mario

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Note.
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1)“ Sa muredda” era una specie di palchetto costituito da una pietra piatta, liscia, sorretta da due sostegni ed appoggiata al muro dell’abitazione, vicino alla porta. L’uso principale era quello di aiutare il padrone di casa a salire e scendere dall’asino o dal cavallo e facilitare il carico e scarico delle merci con questi trasportate.
2)“Sa fruscella” era un recipiente tondo, ben lavorato, in vimini, che serviva per raccogliere e pressare la ricotta, appena tolta dal crogiuolo di lavorazione. Opportunamente pressata in questo recipiente, la ricotta perdeva l’eccesso d’acqua ed era pronta per il consumo.
3)“Pappai piccioccheddus”, era l’invito comunemente usato quando si porge qualcosa da mangiare a qualcuno: “Mangiate, ragazzi”, in questo caso.

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