venerdì, febbraio 10, 2012

COSOMINA.

Oristano 10 Febbraio 2012

Cari amici,

Il racconto che trovate è la sintesi di un fatto vero. Risale agli anni sessanta, quando io avevo circa 15 anni. Di questi tempi i fatti raccontati sembrano cosi lontani nel tempo! Eppure sono passati solo poco più di cinquant'anni.

Ecco il ricordo di Cosima, chiamata familiarmente Cosomina.

Cosima, dieci anni ancora da compiere, era la più grande di sette fratelli. L’ottavo, quando l’ho conosciuta io, che all’epoca avevo 15 anni, era in arrivo. Viveva con la numerosa famiglia in una casa cantoniera di proprietà dell’Amministrazione Provinciale di Nuoro sulla strada che dalla periferia di Macomer conduceva a Pozzomaggiore.

Il suo nome di battesimo era Cosima, datole dai genitori mamoiadini certamente in onore di S. Cosimo, il cui antico santuario è meta di grande venerazione non solo a Mamoiada ma in gran parte della Barbagia, ma era chiamata familiarmente Cosomina ( dalla famiglia Cosomi’, con la troncatura tipica delle parole nel dialetto barbaricino).

In quella povera casa isolata nella brulla campagna ai confini tra il Macomerese e l’inizio della Planargia, non aveva molti amici con cui giocare e, forse, se li avesse avuti, non ne avrebbe avuto il tempo. I genitori, il padre perennemente fuori casa di giorno e la madre distrutta dalle troppo frequenti gravidanze, non avevano certo cura di Lei, anzi la consideravano un grande risorsa per la gestione e la cura della casa e degli altri bambini più piccoli.

Cosomina, pur bisognosa di cure e di affetto con i suoi soli 10 anni, nonostante l’età era già oberata di lavoro: doveva tenere in ordine la casa, badare ai fratelli minori ed occuparsi del fratellino più piccolo, quel bimbo ancora in fasce, che stazionava perennemente in “su brazzolu”, la piccola culla appoggiata ai lati del camino, perennemente acceso, inverno ed estate, per le necessità di cucina e di acqua calda. Cosomina era cresciuta in fretta. Aveva imparato ad alzarsi presto la mattina, preparare ed accendere il fuoco, e, come una piccola madre di famiglia, riassettare la cucina prima che si alzassero i genitori. La necessità fa,davvero, maturare anzitempo!

Quando mio padre, dipendente dell'ANAS, fu trasferito a Macomer le nostre abitazioni si trovarono vicine e facemmo la loro conoscenza. Ricordo che la prima volta che misi piede a casa loro, fui spaventato dal caos che si mostrava al mio sguardo. L’ampio ingresso era adibito anche a cucina. Un vecchio tavolo coperto da una tovaglia di incerato a fiori era pieno di piatti sporchi, bicchieri e posate alla rinfusa. Le pareti della stanza, annerite dal fumo, erano sporche e scrostate, e mostravano i segni di un’usura che avrebbe avuto bisogno di urgente manutenzione. Per terra, un po’ alla rinfusa, vi era di tutto: recipienti che avevano in parte versato il contenuto che colava e si rapprendeva, resti di cibo, biancheria sporca dei bambini, pezzi di legno per alimentare il fuoco e quant’altro. Sulla destra, in fondo, addossato alla parete, un caminetto malconcio col fuoco acceso, ed una pentola annerita che sicuramente conteneva dell’acqua calda. Addossato ad un lato del camino “su brazzolu”, dove, avvolto in panni dal colore indefinibile, dormiva un neonato.

Sicuramente le visite non dovevano essere numerose. All’arrivo mio e dei miei genitori lo stuolo dei bambini si avvicinò a noi vociante: ci toccavano ci guardavano incuriositi, con gli occhi grandi spalancati. Cosomina, un passo dietro la madre, restava timidamente da parte, vicina al camino, a fianco alla culla con lo sguardo rivolto al fratellino. La madre, vestita dimessamente, ci salutò con un sorriso sofferente. Chiese da dove venivamo e, dopo un colloquio abbastanza scarno e formale, ci congedammo.

A quindici anni io ero già abbastanza maturo e riflessivo e comprendevo quanto difficile fosse per quella bambina condurre una vita da adulta. Le poche volte che tentai con Lei di intavolare un minimo di dialogo mi accorgevo che non era facile. I numerosi impegni di lavoro, l’educazione riservata delle famiglie barbaricine, tutto contribuiva a smorzare ogni tentativo. Mi accorgevo, però, che molte volte avrebbe voluto anche Lei giocare, ridere, scherzare, correre a perdifiato, ma sapeva anche che a Lei tutto questo era negato. A dieci anni toccava già con mano l’asprezza della vita che l’aveva fatta maturare anzitempo, rubandole la gioia degli anni della fanciullezza. Si era ritrovata mamma senza esserlo, donna di casa da bambina, con i fratellini da accudire; giocattoli vivi che sostituivano gli altri giocattoli inanimati, con i quali avrebbe voluto ardentemente giocare. Le poche volte che, nei rari momenti di pausa, usciva di casa a prendere il sole, non era loquace; se cercavo di dialogare con Lei scambiava solo poche parole, con lo sguardo quasi sempre rivolto verso il basso. Se alzava lo sguardo, cercando di abbozzare un debole sorriso, il suo volto e soprattutto i suoi occhi, erano colmi di tanta tristezza.

Una tristezza contagiosa, che, pur tanto tempo dopo, penetra dentro di me anche oggi, nel ricordare questo frammento di vita vissuta. Chissà come avrà vissuto, dopo, la sua vita Cosomina, la triste bambina cresciuta senza infanzia! Di Lei non seppi più nulla.

Prima di chiudere voglio raccontarvi, cari amici che mi leggete volentieri, un curioso episodio di quel periodo che certamente Vi darà la chiara dimensione di quanto amara fosse la vita di Cosomina.

Una mattina (ho sempre avuto l’abitudine di alzarmi presto la mattina ed ancora la mantengo), credo fosse alla fine Luglio, passeggiando vicino alla loro casa, sentii un disperato belare, intervallato da piccoli colpi. Cercai di individuarne la fonte e mi accorsi che si trattava di una capretta che, ritta di fronte alla porta di casa della famiglia di Cosomina, belava e picchiava forte con la testa sulla porta. Sembrava non darsi pace. Poco dopo Cosomina aprì la porta e la capretta si infila velocemente dentro casa. Volevo soddisfare la mia curiosità e cercai in tutti i modi di vedere cosa stava succedendo, capire il perché di tanta agitazione. Ecco qual'era il motivo.

La capretta, cari amici, era, con Cosomina, la “mamma adottiva” del bambino in fasce, che stava notte e giorno sull’improvvisata culla vicino al fuoco. Tutte le mattine la capretta, senza mai sbagliare l’ora, entrava veloce in casa, carezzava con la lingua il bambino e porgeva le sue gonfie mammelle, con amore, al neonato. Il bambino allungava le sue manine e mettendo un capezzolo in bocca succhiava avidamente il suo latte. Lo capretta si prendeva cura del piccolo come se fosse suo figlio, con amore materno, come se fosse lei la vera mamma e lui il suo capretto! Quella mattina non era la capretta che si era dimenticata di offrire il suo latte, ma Cosomina che, stanca di una giornata particolarmente pesante, si era dimenticata di aprire la porta. La capretta, per fare il suo dovere, per non mancare al suo appuntamento di “mamma-balia” fedele, glielo aveva ricordato!

Cari amici che leggete queste righe, quello che Vi ho raccontato è un fatto vero non una delle solite storielle strappalacrime.

Grazie della Vostra sempre splendida attenzione.

Mario

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