martedì, dicembre 24, 2013

DICEMBRE 1972: IL TERRIBILE DRAMMA DEI SPRAVVISSUTI DELLE ANDE. QUANDO LA SOPRAVVIVENZA PUO’ ESSERE GARANTITA SOLO DALL’INFRAZIONE DI UN TERRIBILE TABU’: CIBARSI DI CARNE UMANA.



Oristano 24 Dicembre 2013
Cari amici,
la lettura dell’Unione Sarda di ieri mi ha riportato indietro nel tempo di oltre 40 anni fa: nella rubrica “Accadde Oggi” veniva ricordata la data del 23 Dicembre del 1972, giorno in cui vennero ritrovati vivi, ad oltre 4.000 metri d’altezza sulle Ande, i 16 superstiti del terribile disastro aereo avvenuto 72 giorni prima: il 13 Ottobre 1972.

Era Venerdì quel 13 di ottobre del 1972, e un aereo delle linee aeree uruguayane, un Fokker F27 che portava 45 passeggeri in Cile, tra i quali una squadra di rugby, precipitò sulla Cordigliera delle Ande. Dodici passeggeri morirono subito per la caduta. I sopravvissuti restarono a trenta gradi sotto zero e provarono a resistere con le scarsissime riserve alimentari a bordo dell’aereo, nell’attesa di essere salvati fino a quando la radio dette la notizia che le ricerche per salvarli erano state abbandonate. A quel punto i sopravvissuti, già allo stremo delle loro forze, dovettero prendere un decisione incredibilmente difficile: morire tutti con certezza o utilizzare l’unica via di salvezza possibile: cibarsi della carne, ormai congelata dei loro compagni morti, per poter continuare a vivere. Lontani dal mondo, abbandonati al loro triste destino, per circa due mesi e mezzo lottarono con disperazione contro un destino crudele. La salvezza arrivò grazie alla caparbietà di tre forti rugbisti che con fatica riuscirono a raggiungere un villaggio cileno e chiedere soccorsi. In questo modo il 23 dicembre del 1972, dopo 72 terribili giorni di angoscia, di disperazione e di forzata “antropofagia”, trascorsi a 30 gradi sotto zero, i 16 superstiti furono portati in salvo. Di questa terribile storia, che all’epoca ebbe eco mondiale, fu tratto il film dal titolo “Vivono!”.
Ricordo bene questo fatto (avevo 27 anni e mi ero appena sposato): i giornali diedero ampio risalto alla notizia che  per giorni occupò la prima pagina dei quotidiani. Oggi, a distanza di oltre 40 anni dal terribile disastro, come possiamo commentare il “fatto”, soprattutto quello della violazione di quel terribile tabù, qual è il cibarsi di carne umana, la carne di esseri della nostra stessa specie, ovvero diventare, anche se per necessità, antropofagi?  La riflessione, anche a distanza di tempo e con una morale che cambia in continuazione, non è ne semplice ne facile. Antropofagia (dal greco νθρωπος, "uomo" e φαγεν, "mangiare") è un termine che incute ancora paura, che indica un essere umano carnivoro che si nutra di altri esseri umani. Un termine crudo, come quello di cannibalismo, che viene largamente impiegato in etologia per indicare l'atto di mangiare membri della propria specie. Ovviamente è necessario capire le motivazioni, le circostanze del perché si arriva ad un gesto così terribile, estremo.
Il cannibalismo per sopravvivenza ha qualche precedente storico, rispetto al fatto citato in premessa. Si parlò di cannibalismo avvenuto durante la Grande carestia del 1315-1317, anche se mancano fonti certe che lo confermino, mentre in epoca più recente viene citato il naufragio, nel 1816, della fregata La Medusa, quando 139 marinai e soldati rimasti bloccati su una zattera per 13 giorni, praticarono, per sopravvivere, l'antropofagia, salvandosi in 15; oppure, il fatto avvenuto nel 1846, quando la Spedizione Donner, diretta in California, commise l'errore di abbandonare la pista conosciuta per una scorciatoia che si rivelò disastrosa. Per mesi gli 87 viaggiatori dovettero affrontare deserto, bufere di neve e attacchi degli indiani; in alcuni episodi sfortunati persero cavalli e viveri. Anche i sopravvissuti di questa spedizione, quando lentamente i componenti uno ad uno cominciarono a morire, si nutrirono dei loro cadaveri. Tutti episodi con un fondamento comune: la sopravvivvenza.
Una riflessione attenta sul disastro delle Ande e, in particolare, sulle forti conseguenze emotive subite dai superstiti, le possiamo ricavare dall’intervista fatta, trent’anni dopo il disastro, a uno dei sopravvissuti, Carlitos Pàez , riportata dal quotidiano La Vanguardia di Barcellona. Nel ripercorrere lucidamente le terribili fasi di quel tremendo Venerdì 23 Dicembre 1972, Carlitos racconta che nell’impatto al suolo dell’aereo, dei 45 passeggeri a bordo, ne sopravvissero 26. L’aereo cadde a velocità abbastanza bassa (circa 400 km all’ora) e  scivolò sulla neve impattando contro uno sperone di roccia.
Alla domanda del cronista se si ricordasse le fasi dell’impatto, se restò lucido o se perse conoscenza, Carlitos rispose: “Ricordo tutto. Quando cademmo nascosi la testa tra le gambe. Il mio cervello pensò mille cose in pochi secondi; pensò che preghiera dire, pregò, mi mostrò immagini delle mie sorelle”. E poi?, continuò il cronista. “Ebbi una terribile sensazione di freddo. Eravamo a 4.200 metri, in un punto della cordigliera isolato, tra l’Argentina e il Cile”. Come vi organizzaste dopo lo spavento, felici, comunque di essere sopravvissuti, continuò con le domande, cosa faceste il primo giorno? “Decidemmo di aspettare. Credevamo che sarebbero venuti a salvarci. Si soffriva molto a quelle temperature, tra -25º e -40º gradi, senza fuoco né vestiti pesanti addosso. L’attesa durò un’eternità: 72 giorni. Alcuni dei feriti morirono nei primi giorni. Restammo vivi in 16, e al decimo giorno, ormai esauriti i viveri, capimmo che saremmo morti tutti”. Cosa successe dopo il decimo giorno? “Non mangiavamo praticamente da dieci giorni. E in quelle condizioni non si sente la fame ma solo un dolore allo stomaco. e la coscienza di avvicinarci alla morte. Quel giorno, attraverso la radio sapemmo che avevano smesso di cercarci. Fu disperante, ma allo stesso tempo quella notizia ci salvò la vita”. Perché, replicò il cronista? “Perché quel giorno ci muovemmo. Fino ad allora avevamo atteso la salvezza dall’esterno. Da quel giorno cominciammo a salvarci da soli, a dipendere solo da noi stessi. E’ stata una lezione per tutta la vita e lo racconto sempre: non aspettare che nessuno risolva i tuoi problemi, tu hai le risorse per farlo! Cominciammo a fare incursioni nei dintorni, a cercare soluzioni e decidemmo di mangiare carne umana”. Di chi fu l’idea, fu la replica. “Tutti ci pensavamo ma nessuno aveva il coraggio di proporlo. Ma quel giorno Nando mi disse: “Carlitos, io mi mangio il pilota”. E lei che pensò? “Che ne aveva diritto. Per colpa del pilota erano morte sua madre e sua sorella”. Non ci furono problemi morali, culturali?, chiese ancora il cronista. “Quando ne parlammo nessuno si oppose. Fu una cosa naturale. La necessità ha la faccia dell’eretico… Alcuni di noi erano studenti di medicina. Con dei pezzi di vetro si incaricarono di tagliare i pezzi di carne. Senza fuoco non li potevamo cuocere, ma per il freddo la carne era semicongelata. La mangiammo così, non sapeva di niente. Ce lo hanno domandato mille volte e tutti ci hanno giustificato”. L’intervista durò a lungo e Carlitos parlò della sua vita dopo, della ricerca di una normalità che stentava a ritornare, del periodo in cui era salito alla ribalta della grande alla cronaca e del lavoro successivamente intrapreso. Una terribile esperienza, comunque, che neppure il passaggio del tempo, per quanto lungo, può farti dimenticare.
Per completare la storia che Carlitos ha riepilogato nell’intervista, riporto quanto riferito dai media dell’epoca. Il gruppo, una volta appurato che le ricerche erano sospese, privo ormai di ogni speranza di salvezza, decise di fare qualcosa. Tre di loro, spinti dalla convinzione che "A Ovest c'era il Cile", il 12 Dicembre del 1972 decisero di allontanarsi alla ricerca di aiuto, portando una scorta di carne umana infilata in diversi calzini. Percorsero 65 km in 10 giorni e finalmente il 21 Dicembre 1972 trovarono la salvezza: arrivarono alla fattoria di un ranchero. Partirono i soccorsi e con l'aiuto degli elicotteri vennero individuati gli altri 13 sopravvissuti, rimasti nella fusoliera ad aspettare. Il finale, tutto sommato, dopo tanta sofferenza era stato abbastanza lieto.
Una vicenda, quella delle Ande, che ha quasi dell’incredibile: un tragedia che ha dimostrato come le situazioni estreme sviluppino nell’uomo quell’istinto di sopravvivenza primordiale, iscritto nel DNA, che lo aiuta a superare remore importanti, anche di natura psicologica, come la violazione di determinati tabù, qual è quello del cannibalismo. Un'esperienza, quella vissuta da questi uomini, che li ha resi “diversi”, come forgiati dalla sorte e, ne sono certo, dopo quell’avventura per Loro nulla sarà stato più come prima. Io ho la profonda convinzione che essi non abbiano violato alcun codice morale; sono cristiano e sono sempre stato convinto che la vita è sacra e che va protetta sempre e comunque, a prezzo di qualsiasi sacrificio. 
In questa lucida logica credo si muova anche il convincimento interiore per la salvaguardia della vita qual è la “donazione degli organi”, estremo atto di bontà che i familiari di vittime, spesso innocenti, fanno in favore di persone che con quell’atto possono ritornare alla vita. Da cristiano a da credente penso che il corpo sia solo un “veicolo” che trasporta la nostra anima e che, se posto al servizio del bene, se serve a salvare altre vite umane, continui a svolgere positivamente il servizio che il Buon Dio gli ha dato.
Grazie della Vostra attenzione, cari amici, e considerato che domani è Natale…
tanti carissimi auguri a tutti Voi!


Mario

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